Psichiatria

Avengers Endgame, ovvero come si affronta un fallimento

L'ultimo Avengers insegna anche ad affrontare i fallimenti

Avengers Endgame, ovvero come si affronta un fallimento

L’esperienza del fallimento è necessaria per riuscire a vivere. Lo spiega bene l’ultimo capitolo della saga degli Avengers. I veri supereroi sono tali non perché vincono sempre, ma perché sanno affrontare gli insuccessi senza esserne distrutti, poiché riescono a trasformarli in opportunità per crescere e cambiare.

[In questo articolo c’è una quota moderata di spoiler sul film “Avengers: Endgame”]

“Cinque anni fa abbiamo perso, tutti. Abbiamo perso amici, familiari e una parte di noi stessi. Oggi abbiamo la possibilità di riprenderci tutto”. L’ultimo capitolo della saga degli Avengers parte da un senso di frustrazione e sconfitta. Ma diventa presto una lezione di vita su come si può reagire ai lutti e ai fallimenti.

L’evoluzione del supereroe

Fin dall’antichità l’umanità ha immaginato figure mitiche che non avessero fragilità fisiche, né incertezze morali, che fronteggiavano senza difficoltà le sfide dell’umanità. Queste narrazioni permettevano di identificarsi in persone in grado di affrontare qualsiasi minaccia senza essere esposti al rischio dell’insuccesso e della mortificazione. Nell’ultimo secolo questi valori di onnipotenza sono stati incarnati nella figura del “super-eroe”. I primi supereroi, come ad esempio Superman, incarnavano un uomo perfetto, idealizzato, con tanti superpoteri e nessuna ambiguità.

Col tempo i supereroi sono “cresciuti”, diventando più simili agli “uomini reali”, complessi, con aspetti oscuri e storie traumatiche. Nella loro narrazione sono diventate centrali le debolezze, le ambiguità e aspetti oscuri del carattere, come per esempio nel caso di Hulk, che non sempre riesce a controllare la sua forza, o nel caso della dipendenza da eroina di Speedy, giovane spalla di Freccia Verde.

L’evoluzione del supereroe da essere infallibile a personaggio fallibile, che deve fare i conti con i propri errori e limiti, è particolarmente evidente nell’ultimo capitolo della saga degli Avengers. In Avengers endgame il gruppo di supereroi Marvel si confronta con un vero e proprio senso di fallimento, senza però arrendersi a esso, ma volgendolo a proprio vantaggio.

Il vero fallimento è… non fallire!

Il fallimento è una delle esperienze umane più dolorose e temute. Nella misura in cui incrina l’idea che abbiamo di noi stessi, la nostra corazza identitaria, la nostra immagine sociale, può risultare angosciante o mortificante. Ma vivere, quasi per definizione, implica affrontare il rischio di fallire in una grande quantità di sfide, da quelle apparentemente più quotidiane e superabili a quelle più complesse.

Nel libro Il magico potere del fallimento, il filosofo francese Charles Pepin spiega proprio che la vera minaccia non è data dalla possibilità di fallire. La vera minaccia sta piuttosto nel fatto che, mancando il coraggio di fallire, semplicemente non si riesce a vivere. Una società che esclude gli insuccessi e addirittura le imperfezioni rende sempre meno attrezzati per cogliere le opportunità trasformative che sono connesse a ogni fallimento.

I fallimenti, infatti, smuovono, ci rendono attivi: alcuni ci spingono a insistere, altri a lasciar perdere, alcuni ci danno la forza di diventare irremovibili, altri ci suggeriscono un cambiamento. Alcuni ci rendono più saggi, altri più combattivi, altri ancora, semplicemente, disponibili per altro. La paura del fallimento, invece, blocca, ci impedisce di vivere.

Il fallimento visto dagli Avengers

Nel film Avengers endgame i protagonisti si trovano a dover fronteggiare intensi sentimenti di vergogna, dovuti all’iniziale trionfo di Thanos, l’antagonista, che ha distrutto metà delle creature presenti sul pianeta, compresi alcuni membri della squadra o persone a cui erano legati sentimentalmente.
All’inizio la loro reazione è simile a quella di chiunque si trovi ad affrontare un’esperienza di lutto e perdita: in genere le persone reagiscono con sentimenti di colpa (“avrei dovuto, potuto…”) oppure con un senso di vergogna per il crollo della propria immagine. Una delle reazioni più frequenti è il ritiro depressivo, che comporta il rifiuto di fronteggiare ed elaborare una realtà che si è modificata. Oppure ci si anestetizza ritirandosi in un mondo de-responsabilizzato, dove al momentaneo sollievo segue la conferma dei sentimenti di vergogna e di non valore.

Il film ci mostra invece come, da una situazione di lutto per la propria immagine onnipotente, gli Avengers riescano a transitare a una situazione più “adattiva”, mobilitando delle risorse che consentono loro di non essere distrutti nel fallimento, ma di utilizzarlo anzi come punto di partenza di nuovi traguardi. Ecco come:

  • Il fallimento come mobilitatore della creatività

Thanos viene, in fondo, distrutto dalla sua stessa incapacità di rimodulare la propria strategia. Gli Avengers, invece, danno fondo a tutta la loro creatività elaborando vari piani. La disperazione provata di fronte alla vittoria di Thanos riesce a diventare il carburante necessario a non abbandonare un piano che non riesce al primo colpo. Dopo vari tentativi, infatti, i protagonisti mettono a punto una tecnologia che consente di viaggiare nel tempo e quindi dà loro la speranza di salvare la situazione. Quando la situazione sembra disperata mettiamo alla prova la nostra audacia e la nostra creatività, con il risultato che possiamo sbloccare risultati fino a quel momento impensabili.

  • Il fallimento come organizzatore delle priorità

All’inizio del film i personaggi sono presi da obiettivi differenti. Man mano che però affiora una speranza, l’esperienza del fallimento li rende molto più orientati all’obiettivo: rivalità, vecchi rancori, obiettivi secondari, passano tutti in secondo piano. L’esperienza del fallimento diventa quindi un organizzatore che permette di stabilire le autentiche priorità: tutte le energie della squadra si mobilitano intorno all’obiettivo principale.

  • Il fallimento come valorizzazione dell’identità affettiva

Uno dei personaggi più toccanti è quello di Thor: un dio/uomo distrutto dal rimpianto, dalla vergogna di non aver saputo difendere il popolo di Asgaard, intrappolato in un circolo vizioso di vergogna, birra, altra vergogna. A ridare a Thor coraggio e martello, simbolo della propria identità, è la possibilità di confrontarsi con la propria madre, che lo rassicura che, nonostante il fallimento e il successivo abbrutimento, continua ad amarlo e a vedere in lui l’eroe che può essere.

  • il fallimento come domanda sul proprio desiderio

In fondo, i nostri fallimenti sono test per valutare ciò che desideriamo. Possiamo sfruttarli e interrogarci sulle nostre aspirazioni, renderci conto per esempio che abbiamo fallito perché non avevamo veramente a cuore ciò che perseguivamo. Sperimentare il fallimento significa mettere alla prova il proprio desiderio e rendersi conto che può essere più forte di ogni avversità. Oppure i nostri fallimenti possono avere la virtù di renderci aperti, di favorire un cambiamento di percorso, una biforcazione esistenziale che si dimostrerà vantaggiosa. Alla fine del film, Thor lascia Asgard e Capitan American tramanda la scudo, alla scoperta di nuovi aspetti di sè.

  • il fallimento come parte del viaggio

“La fine è parte del viaggio” dice Tony Stark all’inizio del film, così come il fallimento fa parte della vita. Inizialmente considerati un vicolo cieco, alcuni fallimenti non sono alla fin fine tanto delle strade senza uscita quanto degli incroci. Quando ci troviamo di fronte alla barriera del fallimento, possiamo cambiare i nostri progetti e leggerla come un segnale stradale.