Riordino, come migliorare il nostro rapporto con gli oggetti

Riordino, una parola che ha portato al successo Marie Kondo. Scopriamo perché mettere in ordine fa bene e quando il rapporto con le cose diventa patologico

Riordino, come migliorare il nostro rapporto con gli oggetti

Riordino, una parola chiave che ha portato al successo editoriale Marie Kondo, scrittrice giapponese: il suo metodo si basa sull’idea che mettere in ordine porti grandi benefici mentali. Scopriamo perché e come il rapporto con le cose possa diventare una vera e propria patologia

Marie Kondo ha raggiunto un enorme successo con “Il potere del riordino” e con “96 lezioni di felicità”, libri in cui svela un metodo per fare un riodino una volta per tutte e non ritrovarsi mai punto e a capo. Marie sostiene che facendo ordine in casa sia possibile cambiare drasticamente la propria forma mentis, il proprio modo di vivere e la propria esistenza.
È esagerato? Vediamolo insieme in un piccolo viaggio!

Il nostro rapporto con le cose

Marie tocca un argomento di enorme interesse, cioè il nostro rapporto con le cose. In che modo le cose definiscono ciò che siamo? Lambruschi (2004) definisce l’identità come il riconoscersi portatori di attributi specifici e personali che ci differenziano da altri, facendoci sperimentare unicità, coerenza e continuità.
Che relazione c’è dunque tra le cose che ci appartengono e l’identità?
Le cose, come oggetti di bisogno, servono a soddisfare necessità personali. Marie sostiene che diversi elementi contribuiscano al senso di valore che ha per noi un oggetto: la funzione che svolge, le informazioni che contiene, i sentimenti che evoca e la sua unicità.
Gli oggetti possono diventare depositari del senso di continuità tra passato, presente e futuro, contenitori di ricordi, testimoni della moltitudine di frammenti di esperienze che attraversiamo nell’ambiente mutevole in cui viviamo. Essi costruiscono nel tempo un luogo simbolico da abitare, sono garanti della continuità e ci accompagnano simbolicamente durante momenti di transizione contribuendo, in questo senso, a creare un sé autobiografico nella sua unicità, coerenza e continuità.

Dieci consigli tratti dal metodo Konmari

1. il riordino è un evento speciale: mettete a posto tutto in una sola volta, iniziando e finendo entro 6 mesi
2. prima di iniziare il riordino, proiettatevi verso lo stile di vita a cui aspirate
3. ordinate categoria per categoria (vestiti, libri), non stanza per stanza
4. mentre ordinate una categoria, tirate fuori e tenete a vista tutto quello che le appartiene
5. cominciate da ciò che è meno capace di attivare ricordi: tenete le foto per ultime!
6. non selezionate cosa buttare, ma cosa conservare
7. prendete in mano tutti gli oggetti, ad uno ad uno
8. riflettete, nell’attimo in cui toccate l’oggetto, se vi fa battere il cuore oppure no: conservate solo ciò che vi emoziona
9. non iniziate a pensare a come organizzare gli spazi se prima non avete finito di buttare
10. buttate tutto ciò che non avete selezionato, non spostate l’accumulo in altre case

Il disturbo da accumulo (DA)

Il rapporto con le cose può diventare una vera e propria patologia, un disturbo cronico che riguarda il 2-5% della popolazione.
Facciamo riferimento a un comportamento impulsivo (o compulsivo) di acquisto o accaparramento di oggetti, una persistente difficoltà – un intenso disagio – nel gettarli, a prescindere dal loro valore economico, che finisce a produrre un accumulo di oggetti che congestiona e ingombra spazi vitali e ne compromette l’uso previsto. Il disturbo causa un disagio clinicamente significativo e una compromissione del funzionamento in ambito sociale e lavorativo, con alcune conseguenze drammatiche, quali gravi tensioni famigliari, isolamento sociale, rischi per la propria salute per lesioni o infezioni per la scarsa igiene dei locali.
Il DA ha un esordio precoce ma una progressione lenta: se già dai 10 anni possono manifestarsi comportamenti di accumulo, è raro che essi diventino rigidamente disfunzionali prima dei quaranta/cinquant’anni.

È un disturbo che si può curare?

Il trattamento del DA, per molto tempo, ha risentito del fatto che venisse visto come variante del disturbo ossessivo-compulsivo e come tale trattato.
Il Disturbo da Accumulo è stato riconosciuto come diagnosi autonoma nel 2013 nel DSM-V: la scarsa specificità del trattamento ha contribuito alla nomea di disturbo “difficile” da trattare. La ricerca oggi ha messo in luce molte differenze tra i due disturbi, ed oggi è possibile pianificare un trattamento specifico per il DA.
È centrale riuscire a condurre una diagnosi corretta, distinguendo il DA da tutte quelle condizioni cliniche in cui può esservi una sintomatologia di accumulo, ma spinta da meccanismi diversi.
Da cosa deriva il DA?
Come molti disturbi psichiatrici ha un’origine complessa, in cui molti fattori possono avere un peso. Fattori genetici e neurobiologici, deficit neuropsicologici e esperienze psicologiche possono influenzarsi reciprocamente e agire come fattori modulanti la sintomatologia.

L’intervento clinico

Dopo un accurato assessment e un intervento sulla motivazione alla cura, per via del fatto che il comportamento di accumulo non viene vissuto come problematico da parte di chi ne soffre, il trattamento di elezione è un approccio cognitivo-comportamentale in cui promuovere la crescita di alcune abilità neuropsicologiche e ristrutturare alcune convinzioni disfunzionali che possono favorire l’insorgere e il mantenimento del disturbo. Vi sono evidenze di efficacia dell’utilità di abbinare a una psicoterapia – individuale o di gruppo – un trattamento farmacologico con la venlafaxina, un SSRI.

Ritornando a Marie, tutti noi tendiamo a fare fatica a buttare un oggetto perché è ancora utilizzabile, perché può contenere informazioni utili, perché è unico o raro e perché è pieno di ricordi.
Le persone con un DA risultano essere dotati di una spiccata abilità nel cogliere dettagli: l’aumentata capacità di percepire e ricordare dettagli rende più sensibili a sperimentare l’unicità (e l’insostuibilità) di un oggetto e contribuisce a generare un carico affettivo da cui può essere più difficile separarsi.
A ciò si accompagna una maggiore difficoltà nel mantenere una visione d’insieme e nel categorizzare gli oggetti, riflettendo ad esempio sulle caratteristiche salienti o raggruppandoli in base a caratteristiche condivise. L’aumento dello stress percepito in compiti di categorizzazione crea dei meccanismi di evitamento: decidere cosa tenere e cosa buttare è esso stesso un compito di categorizzazione, che viene evitato perché stressante.
A ciò si accompagnano credenze specifiche su deficit di memoria, unite a credenze su conseguenze nefaste del non ricordare, che favoriscono il mantenimento di supporti esterni di memoria, quali documenti, libri, riviste.
Nel trattamento proposto da Frost e Steketee si agisce inoltre su quei processi e su quei meccanismi mentali che sono responsabili del mantenimento dell’accumulo. Evidenziamo, riprendendo un interessante lavoro di Claudia Perdighe e Francesco Mancini, quattro di questi meccanismi. L‘attaccamento emotivo, inteso come una speciale connessione affettiva con gli oggetti: buttare implica un disinteresse verso gli oggetti e verso tutti i significati ad essi connessi. La responsabilità, cioè la tendenza a vedere una speciale opportunità o utilità potenziale in ogni oggetto: buttare significa essere persone superficiali che non danno il giusto valore alle cose. La memoria, intesa come desiderio di preservare il tempo vissuto: l’oggetto porta con sè il desiderio di cristallizzarlo. Il controllo, connesso al senso di sicurezza nel tenere gli oggetti in un dato luogo e ordine.
Come potete vedere, sono modalità che tutti noi sperimentiamo nel rapporto con gli oggetti a noi più cari. Il disturbo nasce dal fatto che questa modalità venga adottata con un numero eccessivo di oggetti.

Marie

E Marie Kondo? Torniamo a lei e all’inizio del nostro viaggio.
Marie con il suo libro estende a tutti noi la possibilità di riflettere sul rapporto che abbiamo con le cose per cambiare il nostro modo di pensare e il proprio stile di vita.
Propone un metodo radicale, in cui il mettere in ordine vuol dire confrontarsi con la possibilità di buttare ogni oggetto attorno a noi. Questo ci confronta con la possibilità di tornare in contatto con quelle parti emotive, con quei ricordi, con tutti quei frammenti di vita depositati negli oggetti. Scegliere di tenere qualcosa, così come scegliere di buttare qualcosa, vuol dire riflettere sui propri bisogni nell’attualità, sul modo in cui rimaniamo legati a oggetti. Vuol dire creare una gerarchia d’importanza delle cose, e del significato che hanno per noi. Vuol dire prenderci un tempo per riflettere su cosa vogliamo diventare, cosa amiamo e a fidarci delle nostre sensazioni. Vuol dire imparare non solo ad aggiungere ma anche a togliere, prendendoci la responsabilità di farlo e rinunciando a mantenere un’apparente sicurezza a noi esterna, depositata in oggetti che la contengono. Lasciando andare ciò che ha fatto il suo corso ci concentriamo sul qui e ora.
Marie parte da un presupposto interessante: che nessuno ci ha mai insegnato al riordino, e che in questo siamo tutti autodidatti. Questo è estremamente vero, e si riferisce sia alle cose, sia ai ricordi che ai pensieri.