Psichiatria

Razzismo, le cause psicologiche

Razzismo, le differenti strategie di “coping” messe in campo per affrontare le discriminazioni

Razzismo, le cause psicologiche

Le discriminazioni razziali sono un tema ricorrente del dibattito pubblico del nostro Paese anche a causa di episodi piuttosto sgradevoli che capitano con fastidiosa regolarità. È utile saperne individuare le matrici psicologiche, poiché gli episodi di razzismo possono denunciare un problema culturale tanto radicato, quanto odioso

Ormai da moltissimi anni, il dibattito sul razzismo e sulle strategie da attuare per combatterlo è vivo e intensissimo anche nel nostro Paese. I processi migratori, la globalizzazione, l’accessibilità dei media e l’attenzione sempre più capillare alle identità personali hanno infatti contribuito ad accendere i riflettori su un tema complesso che coinvolge educazione ed esperienza personale, le cui radici psicologiche profonde si innestano su una divisione arbitraria del mondo che ci circonda in “buoni” e “cattivi” semplicemente in base alla provenienza o al gruppo sociale d’origine. I motivi possono essere diversi: la paura di perdere ciò che si ha in favore di un nuovo elemento ignoto, lo stesso timore di ciò che non si conosce e quindi appare diverso e strano, l’ostilità verso gruppi sociali precisi per interessi altri, politici, religiosi o economici che siano.

In che modo le persone imparano a creare stereotipi e pregiudizi?

A prescindere dal tipo di matrice, lo stereotipo e il pregiudizio nascono in seguito all’attribuzione di caratteristiche forzatamente negative a un gruppo sociale definito più o meno precisamente. Nel corso della ricerca della propria identità, un essere umano si trova presto o tardi a concludere che, nel mondo che lo circonda, i gruppi sociali si dividono in due tipi di profili fondamentali: “noi” e “loro” (magari lo si apprende all’interno di un processo di educazione, impartito dai genitori ai figli).

Si tratta di una distinzione vecchia come il tempo stesso e un esempio facile è costituito dagli antichi Greci, i quali dividevano tutti i popoli della Terra in due gruppi: sé stessi, i Greci appunto, e i barbari, ossia l’insieme di tutti i non Greci (si potrebbero trovare anche esempi ben più antichi). Nel momento in cui si arriva a pensare che “noi” non siamo uguali a “loro” con pari diritti e pari dignità ma, anzi, “noi” siamo migliori o superiori per uno o più ragioni, di solito totalmente arbitrarie, ecco che nascono stereotipo e pregiudizio.

I motivi possono essere svariati: si va dall’ignoranza alla paura dell’ignoto e del diverso ma non manca una forte componente legata agli interessi politici ed economici. Talvolta, possono anche esserci implicazioni religiose. Per suffragare stereotipi e pregiudizi, poi, basta focalizzarci sull’attribuzione di precise e ricorrenti caratteristiche negative a un dato gruppo sociale, costruendo una narrazione precisa che si autoalimenta con il passare delle generazioni.

Perché l’uomo è razzista

Ma come mai abbiamo bisogno di sentirci superiori nei confronti del diverso? In altre parole: perché tendiamo al razzismo? Diverso spesso è uguale a ignoto, e l’ignoto, o il non ben conosciuto, fa paura, generando una batteria di emozioni e di sentimenti negativi, come l’ansia e il senso di insicurezza dovuto alla messa in discussione della propria identità (la bassa autostima si enfatizza davanti al diverso). Inoltre il bisogno di appartenenza a un gruppo può portare a identificare il diverso come fuori dal confine, un meccanismo che serve a consolidare la propria appartenenza e il proprio ruolo nel gruppo.

La parola chiave è paura: le reazioni alla paura possono essere la fuga dalla minaccia, ma anche l’attacco, che è il file rouge delle discriminazioni razziali.

Questione di “coping”

La discriminazione, specialmente quando messa in atto in maniera continua, ha conseguenze sulla salute fisica e mentale di chi la riceve che vanno dall’ansia, alla depressione, alle reazioni traumatiche, fino a vere e proprie psicosi che possono condurre a comportamenti pericolosi per sé e per gli altri.

Fortunatamente non è detto che chi subisce comportamenti discriminatori o aggressivi sviluppi poi una malattia psichiatrica. La differenza sta nelle strategie di “coping” che vengono messe in campo, cioè dal modo in cui la persona fronteggia i fattori di stress.

Il termine “coping”, introdotto in psicologia nel 1966 dallo scienziato americano Richard Lazarus, può essere tradotto in italiano con termini come “fronteggiamento”, “gestione attiva”, “risposta efficace”, “capacità di risolvere i problemi”, e indica l’insieme di strategie messe in atto per far fronte a una situazione stressante. Il concetto si riferisce sia a quello che una persona fa effettivamente per affrontare una situazione difficile, sia al modo in cui si adatta emotivamente a tale situazione. Nel primo caso si parla di Problem-focused coping, o coping attivo, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo; nel secondo si parla invece di Emotion-focused coping, o coping passivo, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante.

La strategie buone

La psicologia positiva, che si occupa del benessere delle persone, ha individuato nella risposta proattiva la strategia più efficace. Recenti studi, compiuti all’Università di Louisville al Centro per le disparità nell’ambito della salute mentale, hanno dimostrato come gli afro-americani usino normalmente questo tipo di strategie per mantenere l’autocontrollo di fronte all’ostilità razziale. Per esempio:

  • la riserva di giudizio su chi si è mostrato aggressivo o insensibile, fino a quando non saranno ottenute ulteriori informazioni;
  • un atteggiamento positivo;
  • un forte autocontrollo per evitare reazioni impulsive;
  • l’utilizzo di informazioni personali per incoraggiare chi ha un atteggiamento discriminante a considerare la persona che attaccano più simile a sé piuttosto che rientrante nello stereotipo negativo che ha in mente, e per indagare quanto i loro pregiudizi razziali siano stabili.

Come è ovvio, queste risposte “proattive” non sono sufficienti a prevenire la discriminazione razziale, né possono sempre mitigare lo stress emotivo provato da chi subisce un episodio di razzismo. Anche per questo ulteriori strategie di “coping” includono:

  • la ricerca di un supporto sociale all’interno della comunità (come il supporto familiare);
  • pratiche di conforto religioso spirituale (preghiere);
  • l’impegno in attività piacevoli;
  • la partecipazione ad attività rilassanti e riposanti;
  • la partecipazione a iniziative collettive (come le molteplici manifestazioni di pace che si sono svolte negli Stati Uniti).

Le strategie deleterie

Purtroppo, talvolta lo stress emotivo causato dal razzismo conduce a utilizzare strategie non efficaci, come la chiusura, il ricorso all’uso di sostanze stupefacenti, la colpevolizzazione (e in casi estremi il suicidio), l’utilizzo alla violenza e il ricorso al terrorismo. Queste risposte, lungi dal fornire un aiuto alle vittime di razzismo, hanno conseguenze negative durature sia per le vittime dirette che per quelle indirette.

Per chi viene inghiottito all’interno di questo modello distruttivo è molto difficile comprendere che le strategie adattive positive (le risposte proattive) potrebbero permettergli di raggiungere un miglior benessere e di perseguire i propri obiettivi personali. In questi casi, un aiuto professionale potrebbe quindi avere un ruolo fondamentale.

Come si può combattere la discriminazione razziale?

Una ricetta di facile attuazione per eliminare per sempre ogni forma di discriminazione razziale non esiste, ovviamente. Tuttavia, molti Paesi del mondo hanno percepito l’impegno nella lotta al razzismo come un valore primario da perseguire con forza e costanza e la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale è stata adottata all’unanimità dell’Assemblea generale dell’ONU già nel 1965.

Anche grazie a quel documento e alla sempre crescente consapevolezza degli esiti nefasti a cui conduce il razzismo, specie quando è praticato a livello sistematico, moltissimi Stati sono intervenuti sulle loro leggi per modificare norme e articoli che legittimassero o incoraggiassero pratiche di natura razzista. Inoltre, in parallelo, in diverse Nazioni s’è cercato di perseguire in maniera particolarmente severa i responsabili di discriminazione razziale così come di incoraggiare la diffusione di contenuti e movimenti integrazionisti e multirazziali, per accrescere consapevolezza e conoscenza nei propri cittadini. Formazione e informazione, in particolare, sono considerate concetti chiave per costruire un domani senza razzismo.

Come spiegare a un bambino cos’è il razzismo?

I bambini sono spessissimo attenti osservatori della realtà. Magari non sono ancora in grado di elaborare concettualmente gesti, comportamenti e scelte che si trovano a osservare ma, certamente, sono più che capaci di registrare ciò che vedono e interrogarcisi sopra. La prima mossa che anche l’Unicef consiglia è quella di ascoltare i propri figli e incoraggiarli a fare tutte le domande che ritengono opportune. Magari ammettendo senza problemi con loro di non conoscere qualche risposta, se ne si dà il caso.

L’occasione di confronto con i bambini può anche essere terreno fertile per insegnare loro che le differenze esteriori tra esseri umani non hanno alcun tipo di peso sulla simpatia, sulla natura o sul carattere delle persone o, peggio, sul loro valore e sulla loro dignità. L’appartenenza a un dato popolo o essere nati in un dato luogo non ti rendono buono o cattivo. È anche importante riuscire a insegnar loro i termini corretti per definire quelle stesse differenze e a fruire di contenuti prodotti da altri popoli e altre culture, par ampliare il bagaglio esperienziale dei nostri figli e condurli a comprendere qualcosa in più di realtà differenti dalle nostre.