Possiamo capire la malattia mentale? Intervista ad Antonio Semerari

Come ha fatto Dostoevskij a descrivere la malattia mentale, senza averla mai provata o studiata? Intervista a Semerari, autore de "Il delirio di Ivan".

Possiamo capire la malattia mentale? Intervista ad Antonio Semerari

Spesso chi soffre di una malattia mentale ci appare diverso e incomprensibile. Eppure la sua condizione non è così lontana dalla nostra. Secondo Antonio Semerari, autore de “Il delirio di Ivan” il segreto per capire la natura umana è essere empatici e insieme curiosi, seguendo l’esempio di Fedor Dostoevskij. 

Chi è afflitto da una malattia mentale e si trova in una condizione di sofferenza psichica, spesso si chiede: “Perché gli altri non capiscono quello che provo?”. Allo stesso modo i suoi familiari, o le persone che si confrontano con lui ogni giorno, si domandano “ma perché fa così?”. Sono domande spesso accompagnate da disperazione e paura, poiché si temono risposte assolute e stigmatizzanti.

Oggi che conosciamo il funzionamento neurobiologico dell’empatia, sappiamo che possiamo capire gli altri “simulando” il loro stato d’animo grazie ai neuroni specchio. Ma la domanda è: siamo in grado di capire anche chi vive uno stato d’animo molto diverso dal nostro, come chi è afflitto da malattia mentale? E come possiamo capirlo se non ci siamo mai sentiti così?

A orientarci nella risposta sono numerosi esempi letterari: non sono pochi gli scrittori che hanno saputo descrivere benissimo la sofferenza mentale e i disagi emotivi dei protagonisti dei loro romanzi. Ci sono inoltre molti bravi clinici, psichiatri e psicologi, che sviluppano una sensibilità particolare nel venire in contatto con i loro pazienti, pur non avendo provato le loro condizioni di disagio, talora estreme (anche se, va detto, ci sono svariati casi di specialisti che sono diventati ottimi terapeuti proprio perché hanno vissuto sulla propria pelle quelle condizioni che curano così bene).

Per chiarire la questione abbiamo intervistato Antonio Semerari, psichiatra e psicoterapeuta cognitivista nonché scrittore appassionato ed esperto in letteratura russa, che nel saggio Il Delirio di Ivan esamina la capacità di Dostoevskij di costruire alcuni suoi protagonisti (come appunto l’Ivan de I fratelli Karamazov) raccontandone con grande acume gli aspetti psicopatologici. Il saggio di Semerari è un autentico viaggio nel “dietro le quinte” del romanzo, nel tentativo di ricostruire gli stati mentali che spiegano i comportamenti dei vari personaggi, riunendo i pezzi di un puzzle complesso fatto di storie di vita, esperienze personali, fattori ambientali, predisposizioni costituzionali, che sono poi i frammenti che compongono il puzzle complesso di ciascuno di noi.

Che cosa si può dire a chi, avendo un parente che soffre di un disturbo mentale, si chiede: “potrò mai capire davvero che cosa prova?”

“Di sicuro Dostoevskij non ha studiato psicopatologia, quindi il segreto per capire anche chi percepiamo molto diverso da noi non è lo studio e la conoscenza dei processi mentali: è molto più importante avere una disposizione all’ascolto, ma deve trattarsi di un ascolto intelligente, mai giudicante. Dostoevskij era un grande osservatore e un grande ascoltatore, era curioso, e non giudicava nemmeno i risvolti più negativi dell’animo umano, non tanto perché li accettava o li assolveva, quanto perché era profondamente convinto della molteplicità della natura umana. Era mosso da un’idea di fondo ben espressa dal commediografo latino Terenzio: “nihl umano mea alienum puto“, ovvero “Nulla che sia umano mi è estraneo”. In altre parole, secondo Dostoevskij è possibile condividere ogni esperienza umana, perfino quella che appare la più incomprensibile o addirittura la più malvagia. In Delitto e Castigo, per esempio, lo scrittore descrive i comportamenti più turpi senza mai giudicare o prendere le distanze, ma piuttosto cercando nei suoi personaggi gli aspetti più umani e per questo vicini a ciascuno di noi. Condividiamo ciò che riconosciamo essere parte di noi, proprio perché insito nella natura umana.”

Che cosa si può fare, allora, per capire i comportamenti che ci appaiono incomprensibili?

“Di solito quello che non si capisce sono i comportamenti che sembrano assurdi anche alla persona stessa che li compie, oppure che percepiamo come controproducenti o dannosi: per esempio il tagliarsi, oppure mettere in atto compulsivamente la stessa azione, il cui senso ci sfugge. Ma se cerchiamo di capire qual è lo stato mentale che precede questi comportamenti, non solo ne diviene chiaro il senso, ma anche lo scopo. Spesso, se interrogata e ascoltata con attenzione, la persona che vive questi stati mentali è in grado di comunicarli e di riflettere sulle proprie azioni, anche quelle più strane o impulsive. Questo vale anche per condizioni estreme come i deliri, costruzioni mentali che sembrano completamente al di fuori dalla realtà. Lo psicologo americano George Kelly diceva: “quando non capisci una cosa chiedila”; se non lo facciamo rimaniamo in balia di una dimensione emotiva che non capiamo, e che può farci paura. Nella pratica significa indagare, anche con una certa insistenza, quali rappresentazioni mentali guidano una certa azione. Significa chiedere, anche di fronte alle azioni che ci sembrano più assurde e incomprensibili, qual è lo scopo. Come ben sa ogni psicoterapeuta, se l’indagine è fatta bene, la persona è in grado di riferire che cosa guida il suo comportamento: nella sua mente c’è sempre la rappresentazione di un obiettivo”.

Questo tipo di ascolto e di indagine ha a che fare con l’empatia?

“Naturalmente. E infatti lo strumento base di indagine di uno psicoterapeuta è l’empatia, che va però guidata dal ragionamento. Oltre a “sentire l’altro”, è importante chiedersi: che cosa proverei se mi mettessi nei suoi panni? Gli esseri umani sono stati creati per comprendersi tra loro, e in fondo la psicoterapia è un uso professionalmente orientato di questa capacità innata, che viene utilizzata in modo “scientifico”. Dal punto di vista neurobiologico, esistono infatti due forme di empatia: emotiva e cognitiva. La prima è un trasporto “di pancia”, istintivo: leggiamo nello sguardo dell’altro e nei suoi comportamenti qualcosa che ci permette di ricreare naturalmente dentro di noi il suo stato d’animo e di capirlo senza sforzo. È più sviluppata in persone orientate all’altro, all’ascolto attivo (concetto elaborato dallo psicologo americano Thomas Gordon), che sentono più naturale cogliere la natura dell’altro piuttosto che imporre il proprio stato d’animo e il proprio modo di essere al gruppo di interlocutori. L’empatia cognitiva è invece la comprensione guidata dal ragionamento, quella che ci permette di osservare l’altro dall’esterno, di avvicinarci a lui con curiosità, come si fa con un’opera d’arte, studiandone la storia, il rapporto con il mondo, le caratteristiche, fino a intuirne il mondo interiore. Questa è quella a cui più spesso ricorrono gli specialisti. Ma forse quelli davvero bravi riescono a mettere in campo soprattutto la prima: a praticare cioè un autentico ascolto attivo, mettendo in gioco le loro pance e i loro sentimenti, grazie anche a un atteggiamento non giudicante, che permette di mettere da parte la paura e di orientarsi all’altro con una spinta altruistica.”

Esistono stati mentali alterati, qualitativamente diversi da quelli che si provano normalmente, che potrebbero essere imperscrutabili? Per esempio l’alterazione che danno alcune sostanze stupefacenti, o il vissuto legato a una depressione grave?

“Ancora una volta la letteratura ci viene in aiuto, attraverso lo scrittore peruviano Carlos Castaneda. Se qualcuno ci comunica un’esperienza sotto l’effetto di determinate sostanze, noi non lo capiamo, cioè non siamo in grado di riprodurre autenticamente dentro di noi quella esperienza. Avremo invece una meta-rappresentazione delle sue sensazioni ed emozioni. È quella che tecnicamente si definisce una ‘rappresentazione di secondo ordine’. Difficile potrebbe essere anche comprendere lo stato di riduzione delle facoltà mentali, per esempio il vissuto dei malati di Alzheimer. La dissociazione invece, per quanto inquietante, è comprensibile”.

Che cosa si può dire a chi tende a spaventarsi davanti a stati d’animo che non comprende, che percepisce molto diversi e lontani dal proprio?

“C’è ragione di spaventarsi e di non spaventarsi davanti a qualsiasi essere umano: gli uomini si fanno male fra di loro a prescindere dalla loro condizione di malattia o disagio. Non c’è nessuna differenza fra chi soffre un disagio mentale e chi non ne soffre. Ma più in generale, non credo all’esistenza di persone “psichicamente diverse”: siamo tutti contemporaneamente diversi e uguali, in quanto accomunati da potenzialità che sono simili. Quindi sì, ci possiamo spaventare davanti a esseri umani potenzialmente pericolosi, ma non perché sono ‘psichicamente diversi'”.

Istintivamente ci spaventiamo davanti al diverso anche a causa del nostro bisogno di appartenenza, di sentirci cioè parte di un gruppo sociale che capiamo e riconosciamo come nostro. Questo non vale solo per la diversità in campo psichico: la stessa paura e diffidenza la proviamo verso il diverso in senso fisico e culturale, basta pensare alle nuove ondate di razzismo…  

“La paura e la diffidenza per il diverso sono sempre esistite e sempre esisteranno. Vale la pena di suggerire, a tutti coloro che vogliono o hanno la necessità di avvicinarsi emotivamente alla vita di chi soffre e viene considerato diverso, di farlo con autentica curiosità, mettendo da parte la paura, e di non cercare di difendersi da ciò che superficialmente sembra loro estraneo. Con uno sforzo di ascolto, e attraverso una curiosità autentica, possiamo sentire gli altri sia con la pancia che con la mente. Niente di ciò che umano ci è estraneo.”