PDM-2: la risposta degli psicoanalisti al DSM 5

È uscita la nuova edizione del manuale diagnostico psicodinamico

Per specialisti
PDM-2: la risposta degli psicoanalisti al DSM 5
PDM-2: la risposta degli psicoanalisti al DSM 5

A differenza dei più noti sistemi di classificazione delle malattie mentali, il manuale diagnostico degli psicoanalisti (il PDM-2) si concentra più sull’esperienza interna della persona che su sintomi e comportamenti, e si propone di formulare una diagnosi utile a comprendere le cause del disturbo e a impostare il trattamento.

Quando si fa diagnosi di un disturbo mentale, è essenziale considerare il ciclo di vita della persona: diversa è la situazione di un bambino, da quella di un adolescente, o quella di un adulto da un anziano. E quando si valutano le caratteristiche della personalità è importante sottolineare le risorse oltre che i tratti patologici.
Questi sono alcuni degli elementi cardine della seconda edizione del Manuale diagnostico psicodinamico, il PDM-2, che per certi aspetti nasce in contrapposizione al più noto DSM-5, lo strumento più utilizzato dagli psichiatri per le diagnosi psicopatologiche. E in effetti gli obiettivi del PDM-2 sono più in linea con la psicoterapia che con la psichiatria. Il manuale psicodinamico si propone infatti di individuare le caratteristiche psicologiche e psicopatologiche per scegliere il trattamento più opportuno, rispettando l’unicità della persona e senza insistere sul concetto di “categorie diagnostiche”. Quelle proposte corrispondono infatti a prototipi, a modelli di riferimento, più che a un insieme di criteri che permettano di definire una sindrome.
Forse anche per questo l’uscita di questo manuale, risultato della task force capeggiata dallo psichiatra italiano Vittorio Lingiardi e dalla psicoanalista americana Nancy McWilliams, non è stata accompagnata dalle aspre polemiche che hanno caratterizzato la pubblicazione del DSM 5, ma più da una pacata curiosità e anche da qualche illustre elogio. “È il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile” ha detto per esempio Otto Kernberg, psichiatra e psicoanalista tra i più noti al mondo.

La crisi del DSM 5

Nel campo delle malattie mentali, quello della diagnosi è un problema annoso: tanti, infatti, sono i modi di leggere e interpretare i disturbi psichici e troppo spesso diversi specialisti formulano ipotesi diverse sullo stesso soggetto. Oggi i sistemi di classificazione più noti e utilizzati sono il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, giunto alla sua quinta edizione) e l’ICD (la classificazione internazionale delle malattie stilata dall’Organizzazione mondiale della Sanità, alla decima edizione). Si tratta tuttavia di sistemi poco utili dal punto di vista terapeutico: sia il DSM che l’ICD – nati soprattutto per formulare diagnosi spendibili con le compagnie assicurative per ottenere i rimborsi – non forniscono strumenti per comprendere la radice dei disturbi né veri e propri criteri per impostare il trattamento.
Il DSM, in particolare, secondo molti specialisti sta imboccando una parabola discendente. “Il DSM ha fallito” ha affermato lo psichiatra Paolo Migone nel corso del convegno di presentazione del PDM-2. “Nato con l’intento di dare dignità scientifica alla psichiatria, ha ottenuto l’effetto opposto: scegliendo di essere descrittivo e ateorico, cioè di definire le sindromi a partire dai sintomi trascurando le ipotesi patogenetiche, ha imboccato un percorso in netta controtendenza con tutte le altre branche della medicina, che classificano le malattie a partire dalle cause, non certo dai sintomi”. La sua edizione più recente, il DSM 5, uscita molti anni dopo la data preventivata e dopo avere sforato ampiamente il budget inizialmente stanziato, è finora quella che ha scatenato le polemiche più accese. In prima linea tra i detrattori c’è Allen Frances, il curatore della quarta edizione, che ha accusato il nuovo manuale di avere “calcato un po’ la mano”, medicalizzando condizioni normali come il lutto o il comportamento bizzoso dei bambini, al punto che a leggere il DSM 5 potremmo credere di essere tutti malati (Primo, non curare chi è normale è il pamphlet che Frances ha pubblicato per Bollati & Boringhieri). Per non parlare del fatto che, dopo un lungo e accalorato dibattito, la task force che ha redatto il DSM-5 non è riuscita a introdurre il tanto auspicato modello dimensionale dei disturbi della personalità (cioè la possibilità di identificare il livello di gravità dei singoli disturbi): il tentativo c’è, per la verità, ma è rimasto confinato nell’appendice come proposta migliorativa, risolvendosi in un nulla di fatto. “Una rivoluzione mancata” ha commentato Lingiardi.

Il punto di vista degli psicoterapeuti

Del resto il DSM non è mai stato molto simpatico a psicologi e psicoterapeuti: per molti porre “etichette” diagnostiche non è utile alla terapia e rischia di intrappolare in condizioni patologiche invece che aiutare a uscirne. Nell’ottobre 2013 l’American Psychoanalytic Association pubblicava sul suo sito che “anche per quei disturbi psichiatrici che hanno una forte base biologica, vi sono fattori psicologici che contribuiscono all’esordio, al peggioramento e al modo in cui si esprime la malattia”. In altre parole, le malattie mentali, comprese le più gravi, sono sempre influenzate da fattori psicologici (se non nelle cause, certamente nel modo in cui il paziente partecipa al trattamento) e possono quindi beneficiare di una psicoterapia, cioè di un trattamento più basato sulla relazione che sull’uso di farmaci. E questa è una questione chiave, poiché “è ormai appurato che la qualità dell’alleanza terapeutica è il miglior predittore dell’esito terapeutico, indipendentemente dal disturbo per cui si cerca aiuto”.
Come fare in modo che la diagnosi non ostacoli la relazione terapeutica e sia invece utile per impostare il trattamento? Gli autori del PDM hanno preferito fare una scelta diversa rispetto ai colleghi del DSM: invece che diagnosi basate su un semplice elenco di sintomi e comportamenti presenti o assenti, sono partiti dalle teorie psicodinamiche più diffuse. Il modello principale utilizzato è quello della psicoanalisi relazionale (con particolare attenzione al controtransfert del terapeuta), ma integrato con concetti condivisi dagli psicoterapeuti di vari orientamenti (come la teoria dell’attaccamento, l’attenzione all’influenza delle dinamiche familiari nello sviluppo del disagio, vari elementi di psicologia cognitiva) e con le neuroscienze. Inoltre hanno messo l’accento non tanto sui disturbi quanto sul funzionamento complessivo della personalità (considerando aspetti quali l’espressione e la regolazione delle emozioni, le difese, la capacità di comprendere se stessi e gli altri, la qualità delle relazioni, le strategie di coping). Se il DSM descrive le malattie, il PDM descrive piuttosto gli individui, cercando di fornire informazioni per capire “che cosa una persona è, e non solo che cosa una persona ha”.
Un altro punto di forza del PDM-2 è che non si rivolge a un pubblico strettamente psicoanalitico o psicodinamico. Negli ultimi anni la ricerca in psicoterapia ha fatto passi da gigante. Sono stati sviluppati diversi strumenti affidabili per valutare la personalità e i processi interpersonali (tra cui la SWAP-200 di Drew Westen e Jonathan Shelder, la STIPO secondo il modello di Kernberg e l’OPD) su cui ci si può basare per pianificare il trattamento. Le scale di valutazione e gli strumenti diagnostici per le singole condizioni sono sempre più trasversali, e la psicoterapia si avvia a diventare un campo del sapere unico, in cui i diversi orientamenti si integrano piuttosto che contrapporsi. La classificazione proposta del PDM-2 è quindi potenzialmente rivolta a tutti gli psicoterapeuti.
Infine, una delle innovazioni più importanti è una divisione più accurata per fasce di età: oltre a una distinzione più chiara tra infanzia e adolescenza (cicli di vita profondamente diversi eppure per molto tempo assimilati), la vera novità è quella di avere introdotto una vasta sezione dedicata agli anziani, il cui disagio psicologico rischia spesso di essere ignorato o scambiato perl decadimento cognitivo, quando invece può essere il risultato di esigenze e caratteristiche specifiche dell’ultima fase della vita, ancora troppo poco esplorate.

Tre assi

La classificazione proposta dal PDM si basa su tre assi.
1) L’asse P valuta la personalità secondo due aspetti: l’organizzazione della personalità (che può andare da un livello sano a un livello psicotico attraversando il livello nevrotico e quello borderline) e lo stile di personalità. I vari stili ricordano in parte i disturbi di personalità presentati sul DSM, ma chiamarli “stili” significa sottolinearne anche le risorse oltre agli aspetti potenzialmente patologici (uno stile ossessivo, per esempio, è connotato spesso da precisione e buon rendimento lavorativo). È quindi l’organizzazione della personalità più che lo stile a indicarne il livello psicopatologico (è il famoso aspetto dimensionale mancante nel DSM). Per esempio: l’organizzazione nevrotica è un po’ rigida e la sofferenza in genere limitata a un’area specifica, mentre l’organizzazione borderline è più disturbata (in particolare in situazioni di intimità emotiva e nella regolazione degli impulsi). La novità della seconda edizione è che viene incluso anche un livello “psicotico” dell’organizzazione della personalità, cioè particolarmente disorganizzato, che porta a un crollo dell’esame di realtà (possono avere aspetti psicotici, per esempio, l’anoressia nervosa e il disturbo di accumulo).
2) L’asse M (ampliato rispetto alla prima edizione) valuta il profilo del funzionamento mentale. In altre parole i disturbi che una persona può presentare non dipendono solo dalla sua personalità, ma anche da come funziona la sua mente. L’asse M comprende capacità quali l’elaborazione delle informazioni, la regolazione degli impulsi, la capacità di stabilire e mantenere relazioni, la regolazione dell’autostima, l’adattamento e la resilienza. Per valutarle vengono proposte una serie di scale e di test di varia provenienza, in gran parte di area cognitivista.
3) L’asse S valuta i sintomi ed è quello che richiama più direttamente il DSM e l’ICD. Da segnalare in questa sezione un l’ampio spazio dedicato al trauma e alla dissociazione e l’inclusione del disturbo post-traumatico complesso, temi emergenti – diremmo anzi ben consolidati – in campo psicoterapeutico. Anche in questo il PDM-2 si è dimostrato più in linea con le più recenti ricerche cliniche rispetto al DSM 5.