Trauma: perché tutti ne parlano?

La riscoperta del ruolo chiave del trauma all’origine di molte psicopatologie

Trauma: perché tutti ne parlano?

Se nel secolo scorso la psicopatologia metteva al centro la sessualità e l’inconscio, in questo secolo si parla soprattutto di “trauma”. Perché? Alla base di questa importante evoluzione c’è la riscoperta di Pierre Janet (psicologo contemporaneo di Freud che fu il primo a studiare i fenomeni dissociativi) e il superamento del dualismo mente-corpo.

Perché la letteratura e la ricerca nell’ambito del trauma sembra essere esplosa negli ultimi 10 anni? Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. E andare alla prima volta in cui la teoria del trauma venne esposta, all’inizio del secolo scorso. 

Pierre Janet, il pioniere

Nel corso del Congresso medico internazionale tenutosi a Londra nel 1913, lo psicologo e filosofo francese Pierre Janet aveva profetizzato che il futuro della psicologia clinica sarebbe appartenuto alla psicotraumatologia, ovvero allo studio delle ripercussioni che un trauma (singolo o “cumulativo”, cioè protratto e ripetuto nel tempo) produce sulla psiche di una persona nel corso del suo sviluppo. Profezia precocissima, che al tempo fu presa poco in considerazione da parte della Società Psicoanalitica, egemonizzata allora dalle teorie di Sigmund Freud.
La teoria di Janet si basava su questi punti:
la mente ha un funzionamento gerarchico: alcune parti del cervello servono a tenere insieme o frenare le altre, operando un’azione di sintesi e di elaborazione di informazioni provenienti dalle zone più “basiche” e dalle spinte istintive e impulsive generate dall’individuo;
– parlare di trauma significa parlare di qualcosa che corrompe questa capacità di sintesi della mente, producendo quello che Janet stesso chiamava dis-aggregation;
–  la “disaggregazione” (concetto che oggi chiamiamo dissociazione), al tempo accostata anche al concetto di dissoluzione, era descritta da Janet come un processo di progressiva de-strutturazione della mente nei suoi meccanismi e parti costituenti: alcuni traumi, sosteneva Janet, sembravano avere il potere di avviare un processo di dis-aggregazione;
– per trauma Janet intendeva un evento in grado di impiantarsi nella storia del soggetto, creando uno spartiacque tra il prima e dopo, in grado di mettere a repentaglio il senso di incolumità e sicurezza/stabilità dell’individuo sia a livello fisico che psichico.
Queste teorie, per una serie di ragioni storiche, furono poco sviluppate dalla psicologia del ‘900. Sigmund Freud ne riprese alcuni tratti (con alcuni aspetti di fondo però differenti) ma finì per dare molto più spazio ad aspetti inerenti la sessualità.

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Il trauma oggi

La ricerca attuale ha riscoperto il trauma e rispolverato le teorie di Janet. A contribuire a questa rivalutazione degli studi dello psicologo francese sono stati:
– la lettura evoluzionistica della conformazione del cervello e dei suoi meccanismi, osservata nell’uomo in quanto animale dotato di potenti spinte istintuali alla sopravvivenza (si vedano, per esempio, le ricerche del neuroscienziato estone Jaak Panksepp);
– la teoria dell’attaccamento come paradigma dominante nell’ambito della psicologia evolutiva, per cui lo “stile di attaccamento” con le figure primarie (i genitori) è il primo luogo di potenziale trauma e di creazione delle risorse e della debolezze psicologiche dell’individuo;
– la direzione attuale della ricerca scientifica in psicologia, che parte dall’osservazione del dato naturale a scapito di simbologia e interpretazione;
– il superamento dell’ “errore di Cartesio”, cioè la divisione tra mente e corpo: il trauma, infatti, è profondamente, definitivamente incarnato, è una dimensione umana che accade, in primo luogo, nel corpo.
È forse soprattutto quest’ultimo aspetto ad aver portato a riscoprire progressivamente le teorie di Janet. Chiunque abbia vissuto un forte trauma lo sa bene: il primo teatro in cui esso si presenterà è il corpo con i suoi sintomi da “allarme protratto”, da disregolazione post-traumatica. Il corpo “accusa il colpo”, o meglio “tiene il punteggio”, per citare un famoso testo di psicotraumatologia di Bessel Van Der Kolk.

Conclusioni

Le teorie del trauma sono oggi sempre più diffuse anche perché stanno facendo convergere filoni di ricerca che sempre avevano mantenuto un’indipendenza concettuale, in particolare quando si distinguevano chiaramente le ricerche sul corpo e quelle sulla mente. In altre parole, la psicotraumatologia è coerente con le ricerche nell’ambito della psicosomatica e della psiconeuroendocrinoimmunologia, e con la recente teoria polivagale di Porges, che chiama in causa il ruolo chiave del sistema nervoso autonomo nella genesi di tanti disturbi “di confine” tra la medicina e la psicologia. Queste teorie trovano, tra l’altro, un ampio riscontro nella clinica, dove si stanno sempre più affermando approcci che integrano aspetti cognitivi, emotivi e corporei, quali l’emdr, la mindfulness, il biofeedback e la psicoterapia sensomotoria.
Si aggiunga che questo modo di intendere la psicopatologia come prodotta da eventi traumatici singoli o ripetuti riconsegna all’individuo la sua potenziale salute psichica “dall’inizio”, ripulendo il campo da ombre moralizzanti che in passato era possibile rintracciare in alcuni approcci psicodinamici classici (per cui sembrava che la persona fosse, almeno in parte, responsabile attiva dei suoi disturbi psichici). La teoria del trauma racconta di un essere umano sano alla nascita, e in seguito, in conseguenza di una serie di eventi di natura relazionale o ambientale, “intaccato” nella sua unitarietà iniziale.
Infine, è opportuno sottolineare quanto spesso i pazienti siano disposti a sottoscrivere le teoria inerenti il trauma: sembra cioè, quella psicotraumatologica, una teoria facilmente condivisibile da un grande numero di persone, in parte anche grazie alla sua grande attenzione a tutto quello che ha a che fare con il corpo.

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